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L’antica colonia achea di Kaulonìa (anche Kaulon) è stata identificata nell’odierna località di Monasterace Marina, centro situato sulla costa ionica della Calabria, al confine tra le province di Reggio e Catanzaro. Il sito archeologico, individuato da Paolo Orsi durante i primi decenni del ‘900, nel corso degli anni ha restituito importanti dati sull’estensione della cinta muraria e sull’ubicazione delle aree sacre, delle necropoli e di alcuni quartieri destinati all’edilizia privata.

Kaulonìa fu fondata, come altre colonie della zona, da coloni Achei. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che possa trattarsi di una sub-colonia di Crotone (709-708 a.C.). 

Del resto, seguendo questa versione, si spiegherebbe anche la forte influenza che Kroton ebbe all’inizio su Kaulonìa. Recenti ritrovamenti archeologici fanno invece pensare ad un’origine più antica della città che sarebbe stata fondata da coloni provenienti direttamente dalla Grecia intorno all’ultimo venticinquennio dell’VIII secolo.

Dopo la sconfitta di Crotone nella battaglia della Sagra combattuta contro l’altra colonia greca di Locri Epizefiri  (ca. metà del VI sec. a.C.), Kaulonìa accrebbe certamente la sua autonoma sviluppando, al contempo,  una serie di attività economiche che ne facilitarono la crescita e l’influenza nell’area. Suoi punti forti furono indubbiamente il taglio e la vendita di legname d’alto fusto, la produzione di pece, fondamentale come il primo per la costruzione di navi, e l’estrazione mineraria.

In ogni caso la città non si affermò mai definitivamente, anche perché un territorio poco produttivo da un punto di vista agricolo e altre colonie ben più influenti non le consentirono di espandersi. Come per la storia della sua fondazione, poco chiare sono anche le cause del suo abbandono. Sicure sono alcune date che ricordano avvenimenti di guerre e distruzioni: nel 389 a.C. la sua distruzione ad opera di Dionisio I il Vecchio, tiranno di Siracusa, e nel 280 a.C., all’epoca della spedizione di Pirro, la devastazione dei Campani che erano alleati dei Romani. 

Nel 205 a.C. la città fu conquistata dai romani. L’abbandono definitivo ci è purtroppo riferito da fonti più recenti di 200 anni (Plinio il Vecchio e Strabone) che non consentono agli archeologi di fare chiarezza, almeno per ora,  sulle ultime vicende di questo centro magnogreco.

Le indagini archeologiche hanno permesso tuttavia di accertare la presenza di una statio, una postazione fortificata per il controllo della viabilità, costruita alla fine dell’età repubblicana (I secolo a.C.) lungo la strada che metteva in comunicazione Tarentum (Taranto) con Rhegium (Reggio Calabria). Le fonti la ricordano con toponimi diversi (Caulon, Stilida, Cocyntum) e il suo territorio è caratterizzato dalla presenza di ville rustiche che sono attestate fino alla fine dell’evo antico.

Il tempio dorico dell’antica Kaulonìa, visto dall’alto

Il sito di Kaulonìa

Proprio dinanzi il mare, a pochi metri dal Museo Archeologico dell’antica Kaulon e nei pressi di quello che doveva essere l’antico Promontorio Cocinto, sono stati rinvenuti i resti di un tempio dorico datato verso la seconda metà del V secolo a.C. e che secondo alcuni studiosi era forse dedicato a  Zeus Homarios.

Le sue fondazioni misurano m 41 x 18 e presentava 36 colonne lungo il perimetro esterno. Si tratta, quindi, di un tempio periptero e in antis.

Non molto si è conservato dell’elevato: tra le colonne un rocchio in stile dorico ed un capitello. Sulla base di questi dati gli studiosi hanno ipotizzato un’altezza del colonnato intorno ai cinque metri. La parte alta ha restituito diversi frammenti, anche del cornicione, che dovevano essere colorati, in nero/blu e rosso in alcuni punti da evidenziare.

Paolo Orsi, che per primo scavò il tempio nel 1912-1913, rinvenne anche le tegole, ricavate dal prezioso marmo greco pario.

Il santuario, che ne inglobò uno precedente, risulta frequentato fin dal VI secolo a.C., come documentato dai reperti rinvenuti. Il vero e proprio tempio dorico fu invece costruito intorno al 430-420 a.C. e rimase in attività per pochi anni, considerando che il tiranno Dionisio I di Siracusa distrusse la città nel 389 a.C. Basandosi sulle poche informazioni relative all’abbandono della città greca, è quasi certo che i suoi materiali costruttivi siano stati oggetto di saccheggio già in epoca romana.

 Malgrado ciò, negli strati di crollo della struttura sono state rinvenute molte tegole integre del tetto.

La cinta muraria di Kaulonìa, di forma quadrangolare, cingeva internamente l’antica acropoli, identificabile con il colle Piazzetta ma, soprattutto, si estendeva tra la costa e le colline ad ovest. Era composta da 11 torri con altezze variabili tra i 3 ed i 5 metri, dipendenti dalla morfologia del terreno e dalla progettazione difensiva.

La realizzazione delle mura urbane abbraccia un lungo periodo cronologico che parte dal VII-VI secolo a.C. fino al III secolo a.C. La tecnica edilizia utilizzata può essere assimilata ad un’opera “a sacco” gettata entro un paramento di filari di ciottoli e bozzette calcaree. Le parti terminali e gli angoli sono invece rinforzati con blocchi di dimensioni maggiori e meglio squadrati di varia origine.

Lungo il perimetro si aprivano almeno quattro porte che, almeno in un caso, presentano soluzioni strategico-difensive molto avanzate. L’urbanistica della città antica, in base ai risultati delle indagini archeologiche, aveva un’organizzazione razionale, basata su strade ortogonali fra loro. Su di esse affacciavano anche abitazioni di dimensioni standard e con un cortile centrale attorno al quale si ditribuivano le varie stanze. Un esempio ben conservato è costituito da quella detta “del Drago”, così chiamata a causa dello splendido mosaico policromo rinvenuto sulla soglia.

Una presa zenitale evidenzia la planimetria del tempio
Pianta del tratto di mura, colle A, torri IV e V. In basso a destra proposta ricostruttiva (rilievo archivio ex Soprintendenza Archeologica della Calabria)
Pianta della porta “a tenaglia” (rilievo archivio ex Soprintendenza Archeologica della Calabria)

Approfondimenti

Subito dopo il fiume (ancora oggi non identificato con sicurezza) presso il quale attorno al 560 a. C. avvenne il celebre scontro tra crotoniati e locresi, si trovava la colonia achea di Kaulonìa, detta anche Aulonia, che agli inizi del ‘900 Paolo Orsi riconosceva nelle vestigia e nei reperti messi in luce nei pressi del promontorio di Punta Stilo (antico Promontorio Cocinto), tra gli sbocchi di due piccole fiumare, l’Assi a nord, lo Stilaro, a sud.

Alle campagne di scavo di Paolo Orsi, condotte dal 1911 al 1916 e incentrate essenzialmente nell’esplorazione del tempio dorico e della cinta muraria, seguì un lungo periodo di silenzio rotto negli anni ’50 del secolo scorso dagli studi topografici e urbanistici di G. Schmiedt e R. Chevallier.

L’archeologo Paolo Orsi

Nei decenni successivi si registra l’esplorazione della “casa del drago” ad opera di Alfonso De Franciscis, seguita dai sondaggi di Bruno Chiartano nei pressi del tempio e da quelli di Elena Tomasello relativi alle mura e ad un settore di abitato.

Solo negli anni ’80 del secolo scorso le indagini archeologiche riguardanti la colonia achea di Kaulonìa riprendevano in modo programmatico, grazie all’impegno e alla costanza di Maria Teresa Iannelli, responsabile del territorio, che si avvaleva della collaborazione di scuole e istituzioni straniere.

Le ricerche sistematiche degli ultimi quindici anni hanno interessato quasi esclusivamente il fronte a mare della città; qui, nell’area del tempio operano l’Università degli Studi di Pisa e la Scuola Normale Superiore; nell’area del vasto complesso di Casamatta è impegnata la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia con il contributo dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria e dell’Università della Calabria, mentre, nell’area settentrionale dell’abitato, denominata S. Marco, opera dal 2003 l’Università degli Studi di Firenze.

Il mosaico che ha dato il nome alla Casa del drago

Recentemente si sta lavorando per mettere in sicurezza il sito verso mare dal momento che, dopo le ripetute mareggiate degli ultimi anni, questo rischia di scomparire definitivamente.

Il luogo ove sorse l’antica Kaulonìa rappresenta un fondamentale punto di riferimento per la navigazione ed i geografi antichi. Si tratta, infatti, del Cocynthum Promunturium citato, tra gli altri, da Polibio e da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Era, per tutti, uno dei luoghi caratterizzanti la forma dell’Italia. Addirittura la sua punta sporgente sembra fosse enfatizzata rispetto al reale, anche in epoca post-classica. Ciò è stato spiegato in vari modi dagli studiosi, ma la causa principale del fenomeno va ricercata nella sua importanza per la navigazione da e verso le coste greche e  a causa della visione “semplificata”  che gli antichi avevano nella descrizione dei percorsi nautici, riscontrabile soprattutto dalla lettura dei peripli o degli itinerari.

Il faro di Punta Stilo, costruito nel 1891 all’altezza dell’antico Promontorio Cocinto.

Non è chiaro quando esattamente avvenne la mutazione del toponimo della località, che in alcuni portolani tardomedievali e moderni viene definita laconicamente come “Stilo” o “Stillo”, da riferirsi con ogni probabilità alla colonna del tempio visibile dal mare.

Da un punto di vista nautico la punta si trova in una situazione topografica particolarmente favorevole grazie anche alla presenza di due fiumare (Stilaro ed Assi), che sfociano esattamente nella zona. Ciò è testimoniato dai ritrovamenti archeologici risalenti al neolitico che la vedono al centro di scambi importanti di ossidiana. Questa situazione non cambia in seguito, sulla base di quanto testimoniato dai ritrovamenti anforici. 

Da queste premesse, e basandosi su alcuni ritrovamenti subacquei, è lecito ipotizzare che in zona sorgesse un porto-canale, probabilmente alla foce della fiumara Assi. Questa, fino ad un secolo e mezzo fa, era ancora dotata di un lago interno residuale nei pressi della foce. L’ ipotesi di un bacino portuale interno trova confronti probanti con altri centri antichi della costa ionica. Ad una soluzione del genere poteva benissimo affiancarsi anche un approdo di tipo più tradizionale, con semplici alaggi sulla spiaggia, come riportato da Tucidide quando riferisce di un carico di legnami da costruzione navale a Kaulonìa.

Capo Stilo nell’Atlante nautico di Roussin del 1659 ( Source gallica.bnf.fr / Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans, CPL GE DD-2022)

L’antico Cocynthum Promunturium, poi chiamato Punta Stilo, fu indubbiamente un importante punto di riferimento per la navigazione anche in epoca post-classica.

Durante la dominazione bizantina mantenne quasi certamente le sue funzioni di approdo in appoggio ai traffici della Cattolica e del Kastron di Stilo. Alcune incursioni arabe, documentate dalle fonti, potrebbero  aver utilizzato l’antico approdo come punto di sbarco.

La cattolica di Stilo

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(…) Quando i suoi amici furono catturati, Pitagora fuggì prima nel porto di Caulonia, e da lì visitò i locresi. (…)”.

 

Thucydides, VII, 25, 2: “(…) καὶ τῶν τε πλοίων ἐπιτυχοῦσαι τὰ πολλὰ διέφθειραν καὶ ξύλα ναυπηγήσιμα ἐν τῇ Καυλωνιάτιδι κατέκαυσαν, ἃ τοῖς Ἀθηναίοις ἑτοῖμα ἦν”.

(…) e il legname, che gli Ateniesi avevano preparato per la costruzione delle navi, (i siracusani) lo bruciarono nel territorio di Caulonia. (…)”

 

Polyaenus., 6, 9, 11:

Quando Dionisio assediò Caulonia, Aristide di Elea salpò con dodici navi per soccorrerla, e Dionisio avanzò contro di lui con quindici navi. Aristide si ritirò per evitare questa forza superiore e, quando arrivò la notte, ordinò che fossero accese delle torce. Rimosse queste torce per gradi e, al contempo, ne accese altre che fece galleggiare su grandi tappi di sughero. Dionisio era distratto dai tappi accesi e impostava la sua rotta in modo da tenerli in vista, aspettandosi di portare il nemico in battaglia al mattino. Nel frattempo Aristide virava e si dirigeva a Caulonia”.

Museo e parco archeologico dell'antica Kaulon

Il Museo e Parco Archeologico dell’antica Kaulon si trovano nei pressi del moderno abitato di Monasterace Marina, lungo un tratto di mare toccato dalla Strada Statale 106 Ionica e dalla ferrovia Reggio Calabria – Taranto. E’ gestito dal Polo Museale della Calabria del MIBAC.

Il Museo contiene soprattutto i reperti dell’antica colonia achea rinvenuti durante gli scavi effettuati da Paolo Orsi all’inizio del secolo scorso unitamente ai rinvenimenti più recenti, ovvero quelli che dagli anni ‘80 hanno consentito di indagare l’abitato e le aree sacre.

Una parte del museo espone gli importanti ritrovamenti subacquei effettuati, nel mare antistante, dall’Associazione Kodros diretta da Stefano Mariottini. 

Si tratta, soprattutto, degli elementi architettonici (sommoscapi e basi di colonna del V secolo a.C.) e di alcune attrezzature (ceppi d’ancora, barre d’appesantimento, pesi, etc.) di cui trattiamo nelle schede del nostro museo virtuale.

Il vicino Parco archeologico si trova in una cornice paesaggistica suggestiva. Vi si accede dal Museo attraverso un sottopasso che consente di non affrontare la pericolosa Statale 106. Da qui, tra la moderna strada ed il mare, si può intraprendere un percorso che consente di prendere visione delle tipologie abitative della città antica, fino ad arrivare al monumentale tempio dorico.

Una veduta del Parco Archeologico di Kaulonìa
La documentazione dei reperti di provenienza subacquea all’interno del Museo

L'area archeologica sommersa

I primi avvistamenti di materiale archeologico sommerso nel mare antistante il tempio dorico di Kaulonìa risalgono addirittura al 1935. Il primo archeologo subacqueo che si immerse in zona fu G. Kapitän che nel 1967, rinvenendo dei rocchi di colonna ed altri materiali lavorati, li attribuì ad un relitto.

Lo studioso tedesco, come altri, non aveva considerato che tutta la zona litoranea è costituita da una formazione arenacea interessata da potenti fenomeni di ingressione marina e subsidenza, che provocano un costante arretramento della costa, la quale è letteralmente inghiottita dal mare a causa della tettonica instabile.

Le ricognizioni subacquee, condotte da più di trent’anni dall’Associazione Kodros guidata da S. Mariottini in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria (M.T. Iannelli), hanno riguardato il tratto di costa compreso tra il tempio dorico ed il fiume Assi, con particolare attenzione all’interno di un settore rettangolare di m 500 x 250 ove sono dispersi circa 200 blocchi appartenenti a materiale edilizio classificabile nell’ambito del sistema trilitico greco (40 rocchi di colonna, 25 blocchi semilavorati, 124 altri blocchi, 2 basi di colonna, 2 bitte d’ormeggio). Le analisi petrologiche hanno consentito di discernere soprattutto calcare, arenaria, scisto e skarn; solamente in un caso si è rilevato del marmo.

L’interpretazione di questo sito non è semplice, ma sulla base di recenti studi geomorfologici si è potuto verificare che tutta l’area è soggetta da millenni a profonda erosione, subsidenza ed eustatismo. È quindi evidente che essa un tempo doveva essere emersa e, sulla base di questi dati, si sono formulate un paio di ipotesi interpretative:

1) La zona era un’area specializzata nella lavorazione di materiali da costruzione importati via mare e scaricati in vicine banchine portuali. Le due bitte rinvenute sembrerebbero essere un buon indizio su un attracco nei pressi.

2) Siamo di fronte al cantiere di un tempio di ordine ionico in corso di costruzione.

Sarebbe da escludere una destinazione d’uso legata allo spoglio di vecchi edifici, per la totale assenza di tipologie di materiali di riuso.

Volendo tentare una ricostruzione paleoambientale è possibile che tutta la zona fosse parte di un complesso di dune, in seguito inghiottito dal mare, situato nei pressi di un bacino portuale o di un porto canale. Il luogo è probabilmente da identificare con il promontorio Cocinto, posto dalle fonti nei pressi di Kaulonìa.

Prospezioni archeologiche sul sito sommerso di Kaulonìa. In primo piano alcuni rocchi di colonna (foto P. Palladino)
Gli archeologi del progetto MUSAS, coadiuvati dai Carabinieri Subacquei, in ricognizione sul materiale architettonico sommerso dell’antica Kaulonìa (foto P. Palladino)
Il recupero della base di colonna n. 72 nell’antica area di lavorazione, oggi sommersa, tra le fiumare Stilaro ed Assi (foto anno 1994, Associazione Kodros. Archivio ex Soprintendenza Archeologica della Calabria)

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Approfondimenti

L’archeologia subacquea di questo importante sito non riguarda solo l’età antica.

Nel 1996 Stefano Mariottini segnalava il rinvenimento di quattro cannoni in ghisa, nel mare dinanzi il Museo Archeologico di Monasterace. I cannoni,   catalogati come R69, R70, R74 e R75,  giacevano in coppia (R69-R70 e R74-R75), alla profondità di circa m 3, in due aree distinte parallele alla linea di costa, distanti tra loro 82 metri ed a circa 35 metri dall’attuale battigia. Un ulteriore esame della loro giacitura subacquea ha consentito di  stabilire che i cannoni sono nelle vicinanza di un dosso, parallelo al bagnasciuga verso terra, che genera un repentino cambio di batimetrica e che può essere interpretato come un precedente piano mesolitorale. Le armi pesanti, normalmente indice della presenza di un relitto, in questo caso non sono inserite nel contesto di naufragio dal momento che non sono stati notati resti di uno scafo o di altri reperti che possano ricondurre ad esso. La tipologia univoca dei cannoni, pur se in due gruppi separati, consente piuttosto di ipotizzare che siano stati gettati a mare, probabilmente, durante una tempesta, per alleggerire l’imbarcazione e migliorare l’assetto in navigazione.

Gli archeologi del progetto MUSAS in ricognizione sui cannoni di Monasterace (foto P. Palladino)

La tipologia di queste armi varia a seconda della datazione e della loro fabbricazione. Per i cannoni in ghisa l’attribuzione ad una determinata cronologia o produzione non è semplice soprattutto perché, a differenza di quelli in bronzo, ricchi di più elementi decorativi o scritte, essi sono spesso anonimi, scarsamente studiati in Italia e con tipologie similari.

Nel nostro caso lo stile e la tecnica costruttiva consentono proporre una datazione al XVII secolo.


Primi rilievi sui cannoni in ghisa (foto P. Palladino)

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Il degrado biologico dei rocchi e
di altri manufatti lapidei sommersi

I manufatti giacciono ad una profondità di 6-7 metri su un fondale sabbioso caratterizzato dalla presenza di rocce granitoidi e calcaree. L’area di studio si estende per circa 200 x 300 mq. Sono stati censiti circa 200 reperti.

I reperti sono costituiti da rocchi di colonne, blocchi semilavorati e due bitte di ormeggio. I manufatti hanno caratteristiche petrografiche diverse che hanno influito, in modo non omogeneo, con il loro stato di conservazione. I rocchi sono, infatti, costituiti da rocce calcaree, così come le bitte di ormeggio e alcuni blocchi semilavorati. Altri blocchi semilavorati sono stati, invece, realizzati in arenaria, marmo e skarn.

Immagini subacquee della bitta e di uno dei rocchi di colonna. (Foto di Stefano Mariottini)

Questi reperti, dal momento in cui sono stati sommersi, hanno rappresentato, nel loro ambiente di giacitura, un substrato di crescita favorevole per una moltitudine di microrganismi ed organismi, sia animali che vegetali. In quanto substrati rigidi e in relazione alle dimensioni ed al peso elevati che hanno reso possibili solo limitati spostamenti, essi hanno consentito lo sviluppo di forme viventi epilitiche che non avrebbero avuto modo di svilupparsi con la stessa intensità sui ciottoli presenti nel fondale, di minori dimensioni e più facilmente movimentati dall’idrodinamismo.

Rocchi di colonna e bitta di ormeggio sui fondali dell’Antica Kaulon

I manufatti di natura calcarea, che rappresentano la maggior parte dei reperti, hanno subito nel tempo anche fenomeni di bioerosione legati alla crescita endolitica di forme animali e vegetali, in grado di perforare attivamente il substrato.

La colonizzazione biologica si presenta, nel complesso, omogenea con lievi variazioni in relazione alla “storia subacquea” di ciascun pezzo, soprattutto correlata ai fenomeni di insabbiamento subiti nel tempo.

In fig. sono illustrate, a titolo esemplificativo, l’alternanza di fasi di insabbiamento e di emersione subite da un rocchio di colonna. Le fasi in cui le superfici sono esposte determinano veloci crescite biologiche, la maggior parte delle quali muore nelle fasi di insabbiamento.

Rappresentazione grafica delle diverse fasi di giacitura di un rocchio di colonna, realizzata sulla base di documentazione fotografica. Nelle sfere sono visibili alcune immagini originali (Foto di Stefano Mariottini)

Stato di conservazione

I rocchi di colonna risultano attualmente colonizzati da crescite algali (soprattutto Padina pavonica e Acetabularia acetabulum), da rivestimenti calcarei di anellidi e di vermi sedentari, gusci di molluschi bivalvi (Chama Ostrea sp.) ed incrostazioni sottili dovuti allo sviluppo di alghe rosse Corallinaceae.

Nelle tre immagini in alto: Ostrea sp. su rocchi di colonna. Nelle tre immagini in basso: Chama sp. su rocchi di colonna.

Queste crescite epilitiche sono particolarmente diffuse sulla parte sommitale dei reperti ed hanno subito variazioni nella loro morfologia e intensità di crescita in relazione alle stagioni e ai livelli di insabbiamento, che possono aver inibito o ridotto totalmente la loro crescita.

È interessante, inoltre, segnalare che i reperti, considerati come materiali  “nuovi” per l’ambiente di giacitura, vengono largamente utilizzati da fauna vagile e sono  spesso di pascolo da parte di gasteropodi, come Trunculariopsis trunculus, e di ricci di mare (Paracentrotus lividus). 

Il rocchio di colonna n° 73 con evidenti colonizzazioni biologiche.

La quasi totalità dei reperti realizzati con rocce carbonatiche, è interessata da una vistosa alterazione della pietra dovuta allo sviluppo endolitico di molluschi bivalvi perforanti, la cui presenza si evidenzia sotto forma di fori circolari o appaiati, talvolta densamente raggruppati, visibili sulla superficie.

Ricci di mare su rocchio di colonna. Bioerosioni ad opera di molluschi endolitici.

Sulla base della morfologia dei fori è stato possibile ricondurre questa azione perforante al mollusco Rocellaria dubia, bivalve frequentemente rinvenuto come biodeteriogeno di substrati calcarei.

Perforazioni su rocchi di colonna ad opera di Rocellaria dubia (foro ad 8) e di Lithophaga lithophaga (foto sub-ellittico)

I fori testimoniano l’azione perforante ma non necessariamente indicano l’esistenza di un degrado ancora in atto. L’insieme delle perforazioni rileva inoltre che si sono succedute diverse colonizzazioni endolitiche: quelle più antiche sono riconoscibili dalle cavità circolari o oblunghe più ampie mentre quelle più recenti sono caratterizzate da aperture a 8, di minori dimensioni.

Perforazioni ad opera dei molluschi endolitici Rocellaria dubia e Lithophaga lithophaga. Sono visibili i fori caratteristici rispettivamente a forma di 8 ed ellittici. Schema in sezione della perforazione all’interno del substrato lapideo

Nella parte degli approfondimenti, la descrizione della morfologia della cavità scavata dal mollusco nella roccia illustrerà in dettaglio tale fenomeno. La rilevante densità delle perforazioni ha, infatti, causato nel tempo una perdita considerevole di roccia costitutiva che, nelle sue parti più prossime alla superficie, ha subito anche  fenomeni erosivi legati all’azione meccanica del moto ondoso e all’abrasione del sedimento sul manufatto, con conseguente perdita di interi strati di pietra.

Scopri i nostri reperti in 3D

Il posizionamento planimetrico delle ancore rinvenute nel tratto di costa antistante il tempio dorico di Kaulonìa ha consentito di individuare due aree di concentrazione. La prima, con più ritrovamenti, si trova a sud del promontorio Cocinto, la seconda a ridosso della foce dell’Assi. Questa disposizione è del resto consona al regime dei venti della zona che, a seconda dei quadranti di provenienza, consentiva una fonda sicura nelle due aree a sud o a nord del promontorio.

E’ anche interessante ricordare come, tra i reperti inventariati, vi siano anche attrezzi che si possono ricondurre ad attrezzature per la conterminazione di sponde, di casseforme o fondazioni subacquee. Caso emblematico è infatti rappresentato da due puntazze di ferro come anche da una ghiera in piombo. Questi reperti sono indubbiamente indicatori della presenza di strutture in acqua di cui oggi sono rimasti solamente pochi elementi.

SCANDAGLIO CAMPANIFORME

Scandaglio. Campaniforme; internamente cavo. Sulla sommità della calotta è presente una presa forata di forma quadrangolare. Nella parte cava alcune costolature frazionano lo spazio in quattro settori, formando un motivo a croce. Sempre all’interno della campana sono presenti incrostazioni di sabbia miste ad un elemento…

SCANDAGLIO

Scandaglio. Incrostazioni. Tronco-conico. Cavo alla base per una profondità di cm 2-4. Sulla sommità della calotta è praticato un foro con sezione ad “S” che ospitava presumibilmente una presa per legaccio. Sulla base d’appoggio è presente un incavo1. Degrado biologico Il manufatto non presenta evidenti fenomeni…

FASCIA IN PIOMBO

Fascia. Lievi ammaccature sulla superficie. Ripiegata a formare un rettangolo. Le estremità si congiungevano assicurandosi con chiodi. Il bordo superiore è ribattuto. Interpretabile come rinforzo o chiave di chiusura di elemento ligneo1. Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia MEDAGLIA 2002, p. 168…

GHIERA IN PIOMBO

Fascione di forma rettangolare ripiegato su se stesso. Le estremità si congiungono appena. Un foro da chiodo è posto in prossimità del congiungimento. Bordo superiore ribattuto. Fratture. Ghiera “di testa”. Utilizzata per operazioni di fondazione (del tipo a palafitta o subacqueo), era inserita sulla testa…

LASTRA IN PIOMBO

Lastra di forma rettangolare ripiegata su se stessa. Uno degli angoli ha un profilo curvo accentuato. I due lati lunghi alloggiano dodici fori, disposti in fila: sembra che abbiano ospitato chiodi dalla sezione quadrata. Sulla faccia ripiegata, leggeri solchi attraversano la lastra orizzontalmente. I bordi…

ELEMENTO TUBOLARE IN PIOMBO

Elemento tubolare. Di forma cilindrica; cavo all’interno. L’imboccatura minore è ribattuta; in prossimità di quella maggiore è presente un foro da chiodo. Immanicatura o rinforzo di palo ligneo. Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia Medaglia S. 2002, Materiali erratici dal mare di…

PLACCHETTA IN PIOMBO

Placchetta. Fratture e schiacciature. Tronco-conica. Ripiegata ed arrotolata su se stessa. Internamente cava. Piombo per l’appesantimento di lenza o di rete da pesca1. Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia Basile B. 1987, Recenti prospezioni subacquee nell’arco costiero fra Messina e Giardini Naxos,…

PUNTAZZA IN FERRO

Puntazza. Corrosioni. Il metallo si sfalda con molta facilità. È costituita da quattro ali che si congiungono a formare una punta 1.Armatura metallica di rinforzo alla punta di una trave. Utilizzata sovente nell’antichità, trovava impiego soprattutto nella cantieristica subacquea 2. Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce…

RIEMPIMENTO PLUMBEO DI CEPPO

Riempimento plumbeo di ceppo d’ancora ligneo. È composto da due bracci parallelepipedi uniti da una linguetta di piombo lunga cm 3 e spessa pochi mm. Il dorso della barra ha un profilo a schiena d’asino. Lungo i due lati maggiori, due costolature aggettanti all’esterno danno…

ANCORA LITICA

Ancora litica a forma di “ciambella”. Pietra poco compatta di colore grigio chiaro con venature azzurrognole. Anello in pietra con presa apicale quadrata. Le cerchiature, sia quella interna che quella esterna, non sono a compasso. Non si può escludere un utilizzo del manufatto in operazioni…

PIETRA FORATA

Pietra forata. Foro apicale. Nessuna traccia di lavorazione. Corpi morti utilizzati con ogni probabilità nell’ambito della pesca come appesantimento (1. Degrado biologico Il ciottolo non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia MEDAGLIA 2002, p. 178 1 Per questo tipo di oggetti e per il mantenimento della denominazione…

LASTRA PAVIMENTALE IN PIETRA

Lastra pavimentale in pietra. Blocco ben squadrato di colore grigio scuro. Faccia vista lisciata; quella che si dispone sul piano di posa è appena sbozzata. Un maschio da incasso triangolare aggetta da uno dei lati. Degrado biologico La lastra non presenta evidenti fenomeni di degrado biologico,…

BASE DI COLONNA 14

Base di colonna in stile ionico. Fusto scanalato. Foro quadrangolare di incasso della grappa nella sezione superiore1. Presente toro modanato. Degrado biologico La natura calcarea di questo manufatto ha consentito una diffusa crescita di animali perforanti. In particolare le minute perforazioni circolari (pitting) sono da ricondurre…

BASE DI COLONNA 15

Base di colonna in stile ionico. Fusto scanalato. Foro quadrangolare di incasso della grappa nella sezione superiore1. Degrado biologico La natura calcarea di questo manufatto ha consentito una diffusa crescita di animali perforanti. In particolare le minute perforazioni circolari (pitting) sono da ricondurre allo sviluppo di…

SOMMOSCAPO DI COLONNA

Sommoscapo (1) di colonna in stile ionico. Fascia superiore decorata parzialmente dal c.d. “anthemion”, un fregio di palmette e fiori di loto alternati. Confronto probante con analogo elemento proveniente dal tempio di Marasà a Locri, databile al 480-470 a.C. In questo caso l’elemento ha dimensioni…

ANFORA CORINZIA

Anfora di produzione corcirese o corinzia tipo B. Orlo leggermente estroflesso, collo cilindrico. Anse oblique, a nastro ispessito. Corpo ovoidale. Piede a corta punta schiacciata. Le anfore corinzie furono introdotte in buona parte del Mediterraneo verso l’ultimo quarto del VI secolo a.C. con una produzione…

CANNONE IN GHISA

Cannone in ghisa ad avancarica con pomo sferico evidente sulla culatta. Non presenta segni distintivi utili ad arricchire la sua identificazione, come la c.d. “arma” (emblema araldico sul fusto), la marca del peso o scritte sull’anello della culatta. Si distinguono ancora bene il focone, i…

CEPPO D’ANCORA 78672

Ceppo d’ancora litica. Di forma trapezoidale con bracci che vanno rastremandosi. Incavo centrale profondo. Accurata opera di sagomatura. Degrado biologico Il manufatto presenta una colonizzazione prevalentemente epilitica, dovuta a talli incrostanti di alghe rosse Corallinaceae e a tubi calcarei di Policheti serpulidi (vermi marini). Bibliografia MEDAGLIA 2002,…

CEPPO D’ANCORA LITICA

Ceppo d’ancora litica. Blocco cuspidato. Incavo appena accennato. Lacunoso di parte di un braccio. Lavorazione poco accurata. Degrado biologico L’ancora presenta una colonizzazione epilitica (superficiale) dovuta principalmente a Policheti serpulidi evidenti con il caratteristico tubo calcareo e una colonizzazione endolitica, localizzata in alcuni punti, dovuta alla…

CEPPO D’ANCORA LITICA 78671

Ceppo d’ancora litica. Incrostazioni marine. Di forma trapezoidale, con incavo centrale abbastanza squadrato. Parzialmente mutilo di uno dei bracci. Degrado biologico L’ancora presenta una colonizzazione epilitica (superficiale) dovuta principalmente a Policheti serpulidi evidenti con il caratteristico tubo calcareo e una colonizzazione endolitica, localizzata in alcuni punti,…

CEPPO D’ANCORA LITICA 25

Ceppo d’ancora litica. Fratturata. Di forma trapezoidale smussata e arrotondata, con incavo centrale ben squadrato. Mutilo di uno dei bracci. Degrado biologico Il manufatto si presenta fortemente incrostato da parte di organismi epilitici. In particolare si tratta di Policheti serpulidi (vermi marini) che, con i loro…

BARRA D’APPESANTIMENTO IN PIOMBO

Barra d’appesantimento con profilo parallelepipedo-trapezio. Fa parte della classe delle ancore in legno con appesantimento in piombo. In questa tipologia il piombo veniva colato in due cassette di legno che facevano appunto parte di un’ancora dello stesso materiale. Secondo quanto relazionato dall’Associazione Kodros, autrice del…

CEPPO D’ANCORA IN PIOMBO 27

Ceppo d’ancora in piombo a sezione piena con profilo a V aperta. Cassetta rettangolare dotata di perno fisso. Degrado biologico Malgrado il ritrovamento sott’acqua di ceppi in piombo sia praticamente all’ordine del giorno, in realtà non è stato ancora possibile stabilire una seriazione tipologica di questo…

CEPPO D’ANCORA IN PIOMBO 29

Ceppo d’ancora in piombo a sezione semivuota mancante di un braccio. Spiccato della cassetta senza perno di fissaggio che doveva essere ligneo. Il braccio presenta un’apertura che lascia intravedere l’interno. Degrado biologico Il manufatto presenta solo incrostazioni biogeniche attribuibili ad alghe rosse incrostanti e a policheti…

SCANDAGLIO IN PIOMBO

Scandaglio in piombo troncoconico cavo alla base per una profondità di cm 1-2. Foro apicale mancante perché abraso1. Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia 1 Cfr. KAPITÄN 1961, p. 305, fig. 1 1; CHARLIN ET AL. 1978, pp. 51 e ss., figg.…

STAFFA IN PIOMBO

Staffa in piombo curvilinea con parti terminali piegate in senso opposto. Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia

STAFFA IN PIOMBO CON PROFILO A T

Staffa in piombo con profilo a T. Trattasi di grappa di fissaggio per materiale edilizio.   Degrado biologico Il manufatto non presenta tracce di colonizzazione biologica. Bibliografia